Articoli su Giovanni Papini

1986


Mario Isnenghi

Giuseppe De Luca e Giovanni Papini, 1922-'29

Pubblicato in: Belfagor, vol. 41, fasc. 3, pp. 318-322
311-312-313-314-315-316-317(318-319-320
321-322)323-324-325-326-327-328-329-330
Data: maggio 1986



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   Un confronto amareggiato fra oggi e ieri, una dichiarata — e però intimamente contraddittoria — nostalgia per l'età eroica delle riviste filtrano le lettere di don Giuseppe De Luca a Giovanni Papini (Carteggio, I, 1922-1929, a cura di Mario Picchi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985, pp. 374) così come quelle di questo esigente erede all'ex-direttore della « Voce » (il Carteggio 1925-1962 fra De Luca e Prezzolini, reso pubblico a cura di Prezzolini presso le stesse Edizioni nel 1975, non può quindi non accompagnare da vicino il più corposo, ma affine volume di dieci anni dopo).

   Tutte quelle loro riviste del principio del secolo, che spettacolo di entusiasmo. Vere orgie (lettera di De Luca a Papini del 16.12.1928, p. 217).
   Ma anche qui, son più quei tempi? Dove potrebbe scrivere? Sopra un giornale nostro, è lo stesso che gridare in una camera chiusa d'una casa deserta in campagna; sopra un giornale profano, ma quale? Io seguo sempre, tanto per seguir qualcosa, il Corriere della Sera, ma un articolo suo dovrebbe andare in terza pagina, e io non ce lo saprei vedere (...). Insomma un suo articolo di fede e di cuore diventerebbe un pezzo di bravura letteraria, e di una letteratura di terza pagina che mi pare che tramonti anch'essa con tante cose (lettera di De Luca a Papini del 19.4.1928, pp. 187.8).

   Conclusione, consequenziale ma provvisoria, di questo sconfortato sguardo complessivo sull'Italia e la cultura italiana 'vent'anni dopo': « E capisco il suo silenzio rassegnato, oggi, e la tristezza disperata di Prezzolini » (lettera cit. del 16.12.1928, p. 217).
   Ho parlato di contraddizione e, ora, di provvisorietà del disappunto. Questo infatti trova un argine nello stesso ardore di militante della cultura, nella filologia pugnace del grande conoscitore di testi, nella tranquilla sicurezza dell'uomo di chiesa di poter agire sui tempi lunghi, nelle pazienti qualità di tessitore, ispiratore, organizzatore culturale di don Giuseppe De Luca: qualità già in azione nella risolutezza orgogliosa del ventenne appena uscito di seminario e predisposto a muoversi fra le alte cime; e poi maturate negli anni Venti e Trenta, fra un mulinio di progetti e di idee che non arrivano a realizzazione, ma anche nel quadro di solidi studi preparatori di fondo e della conquista di una originale e inconfondibile, per quanto discretissima, posizione propria, fra le quinte della cultura, e non solamente di quella cattolica. (Fra gli interlocutori, come sempre di primissimo piano, di questa inconsueta figura di promotore e di


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consigliere da cui muovono e verso cui convergono per decenni tanti e cosí diversi flussi discorsivi, vi saranno, come è ormai noto, un fascista e un possibile post-fascista della caratura di Bottai e il capo del partito commista, Togliatti.) Qualità infine venute in luce e pervenute a dar frutto visibile negli studi scritti o animati per quella sua lungamente preconizzata storia della pietà — spessore profondo e sconosciuto della storia del popolo cattolico in Italia — e nella costruzione e gestione in prima persona, dopo la guerra, delle sue Edizioni di Storia e Letteratura: un'impresa di alta professionalità filologica — quella stessa che a venticinque anni dalla morte del fondatore, avvenuta nel 1962, ne documenta la vasta e singolare rete di relazioni epistolari — nella quale il sacerdote lucano ha modo di manifestare appieno la sua scelta di metodo a favore di quelle che potremmo chiamare le opere di lunga durata, la pubblicazione di fonti, testi, documenti: compresi quelli del primo Novecento, ricercati e ricomposti con lo scrupolo severo più spesso riservato ai testi consacrati dal tempo.
   In questa sorta di nuovo Giuseppe Prezzolini di parte cattolica — se ci si passa l'analogia, per altri versi improponibile — i cui archivi e carteggi non sembrano profilarsi meno fertili di incontri culturali e di scoperte umane rispetto a quelli leggendari cui ha continuato ad attingere l'antico Giuliano giunto ormai sull'orlo del secolo, coesistono due dimensioni ben distinte o però altre, tanto caratterizzanti e rimarchevoli: anzitutto, il suo sentirsi — da 'prete romano' — incardinato nella storia millenaria e nelle sorti atemporali di una istituzione sovranazionale che è cosí solida da sopportare qualunque battuta d'arresto e caduta individuale, anche ai più elevati livelli di responsabilità. (Proprio questa tranquilla certezza consente a De Luca di ragionare con spirito critico e di non sentirsi costretto a eccessi di zelo quando parla o scrive in privato di cose della chiesa e degli ecclesiastici — siano pure gesuiti, il padre Gemelli, qualche cardinale e persino il papa — come singoli personaggi. In quanto tali, infatti, si è liberi di pensarne qualsiasi anche poco lusinghiera cosa; la pienezza della fede e l'istituzione-chiesa sono troppo oltre le inadempienze e i comportamenti dei singoli). Ma accanto a questo suo ferreo senso dell'istituzionale, c'è in 'Don Giuseppe' — altrettanto forte e necessaria — un'urgenza acutissima di muoversi, sentire, colloquiare come soggetto individuale fra altre personalità selezionate e soggettivamente attive e responsabili. Qui la sua forma di azione culturale è la corrispondenza, in vista di un singolare cenacolo — di competenze, d'anime, di cuori —, di uno stabile colloquio a distanza — magari da un continente all'altro, come nel carteggio con Prezzolini — sulla base, è da credere, di una sorta di censimento delle competenze e dei poteri: di coloro, cioè, sollecitabili a discutere un problema, un personaggio, un libro; a promuovere insieme opere, riviste, case editrici; a combattere, appoggiare, preconizzare scelte di principio e correnti culturali. Ed ecco dove riemerge l'età delle riviste e torna a rifulgere la « Voce »: in questa metodica individuazione delle aristocrazie e delle élite; nel sottinteso di quello che una volta era stato definito il 'prepartito' degli intellettuali; nella ritornante proposta della rivista come strumento di risalita in pubblico dell'intellettuale, pur sulla base di


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una frequentazione di documenti culturali questa volta di maggior spessore temporale, in ragione del retroterra religioso e chiesastico.
   Ma ecco anche l'intima contraddittorietà — ne facevo cenno sopra — e dunque il carattere assolutamente condizionato di questo rifarsi del giovane De Luca al modello inimitabile dei suoi 'maggiori'. I tempi, certo, comportano che lui — non meno di un Vittorini e di altri giovani scrittori e uomini di cultura che muovono i primi passi pubblici fra le due guerre — guardi alla mitica generazione primonovecentesca e all'età delle riviste come a un naturale termine di confronto. Si insinua anche in lui, poi — seppure attutita dalle sue scelte di alleanza con Papini e dai suoi inesausti tentativi di seduzione e di cattura nei confronti di Prezzolini, ateo controvoglia — la coscienza che gli anni presenti non corrispondano, per levatura di opere, continuità nell'azione di gruppo e influenza verso l'esterno, a quella straordinaria stagione di messi precoci che aveva preceduto la guerra. Tuttavia, sul piano dei princìpi primi, degli orientamenti culturali e dello stile di lavoro, è chiaro che né l'idealismo di Croce (con il quale, pure, De Luca non manca di intrattenere colloqui) e di Gentile, né il problemismo e il cometismo di matrice positivista e laica di un Salvemini, né l'irrazionalismo, l'occultismo, il pragmatismo, il nazionalismo, il futurismo, il 'frammentismo' e tutti gli altri possibili 'ismi' dell'inquietudine primonovecentesca, possono essere assunti come tali e fatti propri da un intellettuale di fede cattolica — sacerdote, per giunta — della generazione successiva. Non dunque gli specifici contenuti di quella dissipatrice stagione della cultura italiana magnetizzano De Luca, nutrendolo dei complessi del postero, bensí la sua carica complessiva, i suoi meccanismi di gruppo, il suo realizzativo slancio vitale. In realtà, che De Luca sia affascinato da quel passato — recente e lontanissimo ad un tempo — risulta soprattutto dal suo farne ripetuto discorso con due protagonisti della rappresentatività dei Dioscuri, Papini e Prezzolini: rispetto ai quali, peraltro, il discepolo si muove in una dichiarata prospettiva filiale, di possibile alleanza culturale, tale per cui il protestarsi emulo volonteroso finisce per risultare insieme un atto dovuto, sincero e conveniente. Se poi si va a guardare alle opere, quella a cui De Luca — allievo attento ai problemi di strategia, postero selettivo ed esigente — richiama più spesso Papini è, non senza ragioni, la Storia di Cristo: che non costituisce certo un frutto in linea diretta della stagione delle riviste, ma che risulta spiegabilmente più affine agli intendimenti egemonici del segreto ispiratore, fra l'altro, di una rivista come « Frontespizio ». La linea guerrigliera delle Stroncature, infatti (come già una rivista rissosamente superficiale oltre che sacrilega, quale « Lacerba ») non soddisfa integralmente l'allievo-consigliere, che pure non disdegna, nelle battaglie d'arresto e di scuola, di passare dalla mormorazione critica al brusco dissenso, sino all'aggressione ad personam, per ragioni di tendenza o per patriottismo di gruppo. Anche il Dizionario dell'Omo salvatico non realizza i bisogni del giovane militante in attesa — reiteratamente dichiarata — di un capo, quale potrebbe essere appunto un Papini tornato ad essere quello che era stato da giovane, ma sulle sue nuove posizioni di fede, al fine di galvanizzare gli spiriti e riordinare


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le sparse membra di un cattolicesimo ormai tepido e sclerotizzato come quello italiano. « A lei la penso sempre un po' come il nostro capitano. (...) Si poteva sperare in Buonaiuti, ma ormai non c'è più nulla » (23.6.1927, pp. 132-3).
   È di questo essere — sconfortante — e di questo potere, dover essere — all'insegna di un rinnovato impegno comune di cristiani — che De Luca parla con Papini: assai più di quanto Papini — che si lascia blandire e incitare — non faccia con De Luca, il quale risulta perciò il vero animatore e il protagonista attivo del carteggio, anche se, al centro, ha cura sempre di lasciare lui, il sognato Gian Falco dei cattolici. Ma intanto gli anni passano, e Papini fa della buona letteratura. O accenna a ripetersi, come prudentemente lascia trasparire il suo pur fedele estimatore: "Soltanto, veda (giacché la vuol sapere tutta), ho paura che l'aver trovato la pace, non la faccia un po' impinguare. (...) Non vorrei insomma che l'onesto apostolato la portasse a fare il ripetitore. Ci siam noi, e siamo una truppa (...) » (lettera del 29.6.1929, p. 253). Oppure accarezza grandi progetti, che però non trovano realizzazione: anche in questo, del resto, ciascuno dei due interlocutori può fare da sponda all'altro; di progetti e di sogni intellettuali si accendono a più riprese tutti e due, ma di quanti ne concepiscono, non altrettanti, certo, ne portano a termine.
   Mentre con ritmo più o meno fitto — sul filo dei giorni nelle fasi di più acceso interventismo maieutico, ma anche delle settimane e, in fasi di inerzia, dei mesi — va accumulandosi un carteggio che darà luogo, mezzo secolo dopo, a questo primo volume (di una possibile, futura lettura in chiave critica e documentaria, emerge talvolta in De Luca la consapevolezza, fra inorridita e compiaciuta) trascorrono, fuori, i primi anni del fascismo. La lettera con cui l'ambizioso gregario si fa conoscere al grande Papini e gli si offre come collaboratore, trepido e fedele, reca infatti la data del 19 dicembre 1922 (pp. 3-4): è già, subito, la proposta di un libro — di erudizione religiosa —, una silloge benedettina che lui stesso, se a Papini piace, potrebbe preparare per la collezione dei 'libri della fede' che lo scrittore dirige presso la Libreria Editrice Fiorentina. Un mese lo fa penare quel grande prima di rispondergli positivamente, ma sono i rischi del mirare alto, che è proprio del De Luca (quell'approccio egli lo studiava da lungo tempo, se ne conservano abbozzi già di due anni prima come questo, « in stile »: Io sono un povero seminarista, che a ventidue anni, con straordinarie ambizioni letterarie, mi trovo buono a nulla, tra folle e ragazzesco (...) Ho provato ancor io, e credetemi senza che ve lo narri per disteso, tutte le vostre superbie e ribellioni intellettuali (...) »: lettera non inviata, della fine del 1920, p. 3, nota 2).
   Questo primo volume finora edito — introdotto, a cura e riccamente annotato da Mario Picchi — si chiude nel 1929 con una lettera di De Luca in data 31 dicembre (pp. 350-1). In questi primi anni di colloquio a distanza non si concertano solo ricerche erudite sugli ordini monastici o su Sant'Agostino, né ci si limita allo scambio di informazioni bibliografiche o sui retroscena di prese di posizione, interventi e recensioni, in particolare di parte cattolica. Il 'prete romano' — che non è 'in carriera', ma a Roma e negli uffici del Vaticano ha numerosi


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e autorevolissimi contatti — può svolgere per il grande amico laico e 'campagnolo' un utilissimo servigio, preventivo e a-posteriori, per muoversi con cognizione di causa in quel complesso mondo cattolico che ha accolto il grande convertito come una acquisizione insperata al proprio campo, non in tutti, però, priva di riserve e di sospetti, che si rinnovano a ogni occasione. Del resto, sullo stato presente della chiesa si può dire che il suo privato corrispondente romano fornisca lo scrittore e il pubblicista di notizie di prima mano, sensazioni e umori, che vanno molto oltre la figura e l'opera — che pur campeggiano come referente — dello stesso Papini. Discretissima informazione di 'vertice', diremmo noi, com'è nello stile e nella collocazione del De Luca. Poco, quasi nulla sulla società politica, e in particolare sul fascismo, che non sia la difesa d'ufficio del Papini dai colpi screanzati di un Mario Cadi (in un articolo del febbraio '29, cfr. p. 225) o di altri 'estremisti'. Maggior interesse e, si direbbe, fiducia — qui, e più ancora nelle parallele lettere a Prezzolini — riscuote in prima persona Benito Mussolini. Anche qui, correntemente, una lettura molto 'romana' e però riduttiva — perché sostanzialmente disinteressata ed estranea — rispetto al fascismo in quanto fenomeno complessivo e forma storica della società di massa. Difficile trarre dalla rarità e dalla bassa temperatura di questi riferimenti al presente propriamente politico — gli anni Venti in Italia — qualche cosa di più di una disponibilità a muoversi per linee interne a una realtà non messa in discussione. Tanto più che per qualunque altra posizione o movimento politico precedente o coevo al regime vigente il carteggio (quello con Papini, così come quello con Prezzolini) lascia trapelare una negligenza, freddezza o ostilità anche più risentite. Visibilmente, insomma, l'accento e le priorità sono differenti e il tempo di questi colloqui intellettuali — pur così attenti a questioni di strategia e di confronto culturali — non è preminentemente il tempo della attualità politica.


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